Via del Velabro rappresenta il tratto terminale della valle del Velabro, quella concavità che dal Foro Romano giungeva al Tevere, da questo spesso alluvionata (anche perché si trovava sotto il livello del fiume) e resa perciò paludosa. È infatti questa l’origine del nome “velabrum” dato alla zona ed al fiumiciattolo: deriva dalla parola latina “velus“, cioè “palude”. È proprio in questa palude che la tradizione assegna il ritrovamento e l’adozione di Romolo e Remo da parte della “lupa”: questo, molto probabilmente, era il soprannome di una povera cortigiana, di nome “Acca Larentia“, che frequentava la palude per guadagnarsi da vivere.
Via del Velabro si chiamò anche “di S.Giorgio in Velabro“, dalla chiesa omonima che vi sorge (nella foto sotto il titolo). Questa sorse sul luogo dove nel V secolo vi era una diaconia retta da monaci greci che svolgeva attività caritativa, con il compito di amministrare e distribuire le provvigioni ai poveri. Sulle mura dell’antico istituto (una semplice aula absidata affiancata da una stanza adibita a magazzino per le derrate), che a sua volta avevano inglobato precedenti costruzioni di epoca severiana (III secolo), durante il breve pontificato di papa Leone II (682-683) fu eretta la chiesa inizialmente dedicata a S.Sebastiano. Fu nel corso del secolo successivo, durante il pontificato del papa greco Zaccaria, che la chiesa venne dedicata a S.Giorgio, il santo guerriero ucciso in Cappadocia, in occasione della cerimonia di deposizione della testa del santo all’interno della chiesa. Numerosi furono i restauri alla quale la basilica fu soggetta, anche per il ripetersi di allagamenti dovuti, come già detto, al fatto che la chiesa è situata sotto il livello del fiume, fino al restauro del Muñoz del 1926, in occasione del quale furono ripristinate le antiche architetture ed eliminate le successive modifiche, compresa l’elegante facciata barocca. La facciata attuale si presenta preceduta da un portico, costruito nel XIII secolo, sorretto da quattro pilastri in laterizio: quattro colonne antiche con capitelli ionici ed una cancellata ne costituiscono l’ingresso.
Nel fregio, sotto la cornice, vi sono due teste di leoni mentre al di sotto corre un’iscrizione metrica che così recita: “Stefano dalla Stella, desiderando ottenere l’eternità, parco nell’eloquenza e famoso per luce di virtù, spendendo oro, rinnovò il pronao, con le sue sostanze lo fece per te o S.Giorgio di cui questo chierico fu priore di questa chiesa, questo luogo presso il Velo nel prenome è detto d’oro“. La parte superiore della chiesa, coronata a timpano, presenta un oculo centrale. Sulla sinistra sorge il bellissimo campanile (nella foto sotto il titolo) che emerge dall’interno della navata sinistra ed è datato XIII secolo: diviso in cinque piani da ricorsi di cornici su mensole, presenta i tre piani inferiori con trifore a pilastri, ora cieche, il quarto aperto con trifore a pilastri, mentre l’ultimo piano presenta trifore poggianti su colonnine marmoree e capitelli a stampella. Sotto il portico (nella foto 1) si notano due finestre della chiesa originale, oggi murate, e diversi frammenti archeologici; bellissimo il portale d’ingresso, costituito da splendide cornici di età romana. L’edificio, inoltre, presenta una caratteristica veramente singolare: i muri perimetrali non sono paralleli ma convergenti verso l’abside, cosicché la parete di fondo è più stretta rispetto alla facciata.
L’interno (nella foto 2) è a tre navate, divise da una doppia fila di otto colonne in marmo e granito con capitelli ionici e corinzi, recuperate da antichi templi romani. L’altare maggiore è costituito da una lastra con motivi cosmateschi poggiante su quattro colonnine, mentre altre quattro colonne con capitelli corinzi costituiscono il ciborio del XII secolo (nella foto 3), costituito da un architrave con decorazione musiva su cui una serie di colonnine sostiene la copertura a piramide tronca. Sotto l’altare, nella confessione, sono conservate la testa, la spada ed un lembo di S.Giorgio. Il catino absidale è decorato dall’affresco raffigurante “Cristo benedicente sul globo, fra la Vergine e S.Giorgio a cavallo (a sinistra) e S.Pietro e S.Sebastiano” (a destra), sullo sfondo di palme completamente ridipinte nel Cinquecento: l’opera viene attribuita a Pietro Cavallini (1295). Nel luglio 1993 un attentato terroristico distrusse il portico (fatto erigere nel XIII secolo dal cardinale Jacopo Stefaneschi) ed il timpano della chiesa (oggi ristrutturati), lasciando intatto il campanile romanico risalente al XII secolo.
Sul fianco sinistro della chiesa si trova il piccolo Arco degli Argentari (nella foto 4), dedicato, nel 204 d.C., dagli “argentarii” (banchieri) e dai mercanti di buoi del luogo a Settimio Severo ed alla sua famiglia: si tratta, probabilmente, di uno degli accessi al Foro Boario. Due pilastri (quello di destra è incorporato nella chiesa) rivestiti di lastre di marmo, con base in travertino, sostengono un architrave orizzontale, interamente in marmo. Il monumento è alto complessivamente m 6,80 e largo 5,86. L’arco era dedicato a Settimio Severo, alla moglie Giulia Domna, ai figli Caracalla e Geta (l’effigie di quest’ultimo venne rimossa dopo la sua uccisione ad opera del fratello), al prefetto del pretorio Plauziano ed alla figlia Plautilla, moglie di Caracalla (entrambi uccisi sempre ad opera di Caracalla). Tutta la composizione è una labirintica decorazione vegetale che incornicia le figure umane, di gusto puramente ornamentale, dove le figure vengono trattate allo stesso modo dell’apparato ornamentale: forse si trattava di una bottega di artigiani non ufficiale, non adatta cioè ad opere di siffatto valore e che, probabilmente, si trovava per la prima volta ad affrontare una tale impresa, con risultati mediocri.
Su Via del Velabro, a pochi passi dall’Arco degli Argentari si trova l’altro grande arco quadrifronte, detto impropriamente “di Giano”, ma da identificare con l’Arcus Constantini (nella foto 5), ricordato dai Cataloghi regionari dell’epoca nella Regio XI. Si tratta di un arco onorario, situato proprio al di sopra di un ramo della Cloaca Maxima (l’ingresso è situato sul lato destro dell’arco). L’imponente monumento è costruito con opera a sacco, rivestita di marmo. L’arco ha quattro facciate (quadrifronte) ed ognuna è occupata da due file di nicchie semicircolari, che in origine dovevano contenere statue. Le quattro chiavi degli archi sono decorate con figure di “Roma” e “Giunone” (sedute) e di “Minerva” e “Cerere” (in piedi). Si è evocato non casualmente il nome di Giano perché il dio bifronte regnava, secondo la religione romana, su ogni luogo di passaggio (Giano deriva dal latino “ianus“, cioè porta). Il passaggio rituale sotto uno “ianus” aveva la funzione di purificare, come avveniva per le truppe e per le armi durante alcune cerimonie evocatrici. Il dio bifronte presiedeva a tutti gli inizi, sia nello spazio che nel tempo. Quanto allo spazio, come già accennato, Giano era presente sulle soglie delle case, presso le porte, così come vegliava sul colle esterno alle antiche Mura Serviane, il Gianicolo, che fungeva simbolicamente da porta della città verso l’esterno. Nella dimensione temporale, a Giano era affidato l’inizio dell’anno nel calendario di Numa, così come il mese che lo apriva, “ianuarius“, ovvero il nostro Gennaio. Nel Medioevo l’arco costituì la base di una torre fortificata dei Frangipane, detta “Torre di Boezio“, forse perché vicina all’abitazione del filosofo Severino Boezio, che all’ombra di quegli archi teneva anche lezione. Nel 1830 l’arco venne restaurato e riportato alla sua forma originale: purtroppo, in questa occasione, fu demolito l’attico originale e ben conservato, che era in mattoni e rivestito di marmo, perché ritenuto erroneamente medioevale.
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Tempio di Giano di G.B.Piranesi