Nicola di Rienzo Gabrini (1313-1354), detto Cola, nacque nel 1313 dalla lavandaia Maddalena e dall’oste Lorenzo Gabrini in una casa in via di S.Bartolomeo de’ Vaccinari (nella foto 1 la targa, affissa sull’edificio, ricorda che “QUI PRESSO NACQUE L’ULTIMO DE TRIBUNI COLA DI RIENZO SPQR 1872”), anche se la tradizione vorrebbe che la sua abitazione fosse quella conosciuta come Casa di Cola di Rienzo. Morta la madre, a sette anni fu trasferito ad Anagni presso parenti contadini che gli consentirono di studiare, come autodidatta, Lettere e Latino finché, verso i 20 anni, deceduto anche il padre, tornò a Roma dove acquisì una buona conoscenza anche di Diritto Canonico e Storia della Roma antica, formandosi con i classici di Virgilio, Tito Livio, Seneca e Cicerone. In occasione della vendita dell’osteria paterna, Cola conobbe il notaio Francesco Mancini, il quale, impressionato dalla sua raffinata eloquenza, lo incoraggiò a completare l’istruzione giuridica e ad intraprendere la professione notarile; gli consentì di svolgere presso di lui il tirocinio e, probabilmente, gli diede anche in sposa una figlia.
Ma l’attenzione dell’ambizioso giovane era già tesa all’impegno politico motivato dall’aspirazione a sottrarre la sua città dalla rovina. In quel periodo, infatti, Roma era dominata dalle nobili famiglie Orsini, Colonna, Caetani, Frangipane, Annibaldi, Savelli, le quali spadroneggiavano senza limiti, vessando il popolo con un’oppressione fiscale sempre più pesante. Cola seppe approfittare della situazione, unendo le sofferenze del popolo alle aspirazioni personali, alimentate dall’avversione contro l’aristocrazia e dalla suggestiva convinzione di poter restituire a Roma il potere e l’importanza di un tempo. Divenuto notaio, nel 1343 fu inviato in missione pubblica ad Avignone, dove ottenne il favore di papa Clemente VI proprio grazie alle sue idee mirate a porre fine alla corruzione che regnava sotto il dominio dei nobili: ciò naturalmente gli fece guadagnare l’odio di uno degli uomini più potenti di Roma, Giovanni Colonna. Cola tornò a Roma nel mese di aprile 1344 con l’incarico di Notaio della Camera Apostolica, senza abbandonare però i suoi piani per una sollevazione generale, anzi raccogliendo un sostegno sempre più grande grazie ad una serie di discorsi brillanti. Nel 1345 infiammò le masse con un vibrante comizio sull’esigenza di riportare Roma ai suoi fasti, dopo aver esposto nella “piazza del Mercato” il suo primo manifesto: in forma pittorica, accusava della drammatica situazione locale ed italiana una nobiltà prevaricatrice, nonché funzionari malversatori ed amministratori corrotti. Il successo riscosso lo indusse ad un secondo manifesto pubblicato nel 1346 sulla facciata di S.Angelo in Pescheria: vi si rappresentava “Roma salvata da un Angelo!”. Il 14 febbraio 1347, infine, fece affiggere il terzo manifesto avanti alla chiesa di S.Giorgio in Velabro: ancora più esplicitamente, vi annunciava la liberazione della città. Il 20 maggio 1347 Cola apparve in Campidoglio con il vescovo di Orvieto, vicario del Papa, e proclamò al popolo che da quel momento la Repubblica era stata restaurata. Grida di approvazione incontrarono le sue promesse di giustizia, uguaglianza e giustizia fiscale e così di colpo si trovò in possesso della piena autorità di Roma. I nobili fuggirono in preda allo sgomento e Cola fu proclamato “Tribuno del Popolo di Roma”. L’inizio fu ottimo perché Cola intraprese la sua attività di governo manifestando tendenze democratiche, ovvero diminuendo le tasse, rafforzando l’ordine pubblico, consolidando la macchina giudiziaria attraverso una Giustizia immune a distinzioni di casta: non a caso ordinò l’esemplare decapitazione di un cistercense e di un membro della famiglia Annibaldi e l’impiccagione di Martino Stefaneschi, Signore di Porto e nipote di due cardinali. La sicurezza e la pace allietarono il cuore dei cittadini romani, liberi infine dalle regole feroci ed arbitrarie che gli aristocratici avevano imposto. Dopo aver spiegato in Campidoglio d’aver preso il potere per solo amore del Papa e del Popolo, emanò i primi provvedimenti stabilendo la pena di morte per il reato di omicidio, fissando a 15 giorni la durata dei processi, proibendo l’abbattimento di case, istituendo la milizia cittadina, erogando fondi per vedove ed orfani, introducendo un servizio di guardia costiera, revocando ai Baroni il monopolio del sale, avocando alla sua autorità il controllo delle fortezze, delle strade e dei porti, revocando ai privati il diritto a disporre di fortezze, creando riserve di grano contro la carestia, concedendo indennità per i familiari dei militari caduti in guerra, esigendo la restituzione allo Stato delle terre usurpate e la pena del taglione per i falsi accusatori. A margine di questa incruenta rivoluzione, convocò l’Aristocrazia e la costrinse a giurare fedeltà al Popolo di Roma. Il 1° agosto 1347, alcuni rappresentanti delle città italiane, su invito di Cola, si incontrarono a Roma al fine di prendere in considerazione la questione di un’Italia unita.
Nell’immagine 2 un dipinto di Dario Querci raffigurante “Cola di Rienzo che arringa la folla” del 1871. Molti dei comuni italiani, anche se non tutti, riconobbero in Cola il capo. Abbagliato dalla propria eloquenza e dal successo, Cola di Rienzo mise in scena, il 15 agosto, una cerimonia di sfarzo ed ostentazione incredibile: il Priore di S.Maria Maggiore, il Priore della chiesa lateranense, il Priore di S.Spirito in Sassia, il Decano di S.Paolo, l’Abate di S.Lorenzo fuori le mura, alla presenza del Vicario di Ostia e dell’Arcivescovo di Napoli, lo incoronarono ufficialmente “Tribuno del Popolo”. La sua stravaganza lo portò a decretare che tutti gli italiani erano liberi e cittadini di Roma e che solo loro avevano il potere di scegliere un imperatore. Pretese come queste e l’ostentazione crescente, ebbero come conseguenza un calo dell’entusiasmo popolare ed i baroni romani, guidati da Stefano Colonna, ne approfittarono immediatamente pianificando una sua caduta. Anche papa Clemente VI, che in precedenza lo aveva sostenuto, non accolse di buon grado le sue idee di Impero Romano basato sulla volontà del popolo e quindi anche il pontefice divenne ansioso di liberarsi di lui. Il 20 novembre Cola, coraggiosamente, incontrò e sconfisse, a capo di una milizia romana, i Colonna, radunatisi a Palestrina in un singolare sodalizio con gli Orsini di Marino. I loro eserciti si posero minacciosamente fuori porta S.Lorenzo già il 20 novembre ma, varcate le mura, Giovanni Colonna ed il padre Stefano furono assassinati: l’ingloriosa ritirata confermò la tenuta del Tribuno. Tuttavia, benché vincitore, Cola ne fu travolto perché, carente di risorse e necessitando di un esercito personale, impose tasse straordinarie aggravate dall’aumento del costo del grano, causando il malcontento popolare. La vittoria, inoltre, gli fece perdere ogni moderazione: divenne infatti più arrogante nel comportamento e più elegante negli abiti. Il papa, esasperato, il 3 dicembre emanò una bolla dichiarando Cola un criminale ed invitando il popolo romano a cacciarlo. Nel tentativo di salvare il regime, il 7 dicembre Cola rinnovò il Consiglio del Popolo ma in una manciata di ore fu costretto a scioglierlo: era giunto a Roma il Patrizio napoletano Giovanni II che, per conto del Sovrano ungherese, voleva reclutare milizie utili all’invasione del Regno delle Due Sicilie. I Colonna ed i Savelli, con i fondi resi disponibili dal Legato papale, lo assoldarono per una insurrezione e furono alzate barricate fino alle porte del Campidoglio. Preoccupatissimo, il Tribuno fece suonare le campane di S.Angelo in Pescheria per richiamare il popolo ma nessuno accorse in suo aiuto. Così, dopo giorni di incertezze, il 15 dicembre si rifugiò in Castel S.Angelo mentre Bertoldo Orsini e Luca Savelli riprendevano il potere ed il cardinale Bertrand de Deaulx rientrava in città. Nel gennaio del 1348, a supporto della scomunica, fu formulata l’accusa di eresia malgrado la qualifica di “Candidatus Spiritus Sancti” ed il 7 maggio il notaio Francesco Orsini giunse a Roma con un ordine di arresto firmato dal Papa. Privo di ogni protezione, il Tribuno riparò fra le montagne dell’Abruzzo presso una Comunità di Francescani eretici della Maiella. Il 17 novembre dello stesso anno, Clemente VI sostituì Bertrand de Deaulx con il cardinale Annibaldo di Ceccano, Vescovo di Tuscolo, al quale rivolse l’invito a catturare il figlio della nequizia ed i suoi complici, reiterando la disposizione il 6 giugno del 1349. Rifugiatosi a Praga nel mese di luglio 1350, Cola pregò l’imperatore Carlo IV di ripristinare la libertà in Italia, ma l’imperatore lo fece imprigionare e lo consegnò al Papa nel mese di agosto 1352. Ma la sorte venne in soccorso del Tribuno: papa Clemente VI morì nel dicembre dello stesso anno ed il suo successore, Innocenzo VI, lo graziò nella speranza di usarlo contro i baroni di Roma. Cola allora tornò a Roma nel mese di agosto 1354, accompagnato dal legato pontificio, il cardinale Gil Alvarez Carrillo de Albornoz, acclamato dal popolo e restaurato al potere, ma ancora una volta cedette alla debolezza di non riconoscere i limiti del suo potere. Divenuto insopportabilmente tirannico, all’alba dell’8 settembre 1354, una rivolta esplose incontrollata e gente armata dei rioni di S.Angelo, Ripa, Colonna e Trevi si radunò in Campidoglio urlando contro il Tribuno, la cui guardia di scorta si dileguò. Forse, sottostimando l’evento, egli uscì sul balcone impugnando il gonfalone cittadino, ma non gli fu consentito di parlare e, quando travestito da popolano, provò ad uscire dal palazzo, fu catturato ed impietosamente linciato. Era l’ora terza di quel giorno, ovvero le nove del mattino. Il suo corpo, trascinato avanti alla chiesa di S.Marcello, fu appeso per i piedi ed il terzo giorno fu bruciato dinanzi al Mausoleo di Augusto. Questo cruento finale è ben riportato in un passo della “Cronica: vita di Cola di Rienzo” di Anonimo romano che così racconta gli ultimi terribili momenti del “Tribuno di Roma”: “Per questa via fu strascinato fi’ a Santo Marciello. Là fu appeso per li piedi a uno mignaniello. Capo non aveva. Erano remase le cocce per la via donne era strascinato. Tante ferute aveva, pareva criviello. Non era luoco senza feruta. Le mazza de fòra grasse. Grasso era orribilemente, bianco como latte insanguinato. Tanta era la soa grassezza, che pareva uno esmesurato bufalo overo vacca a maciello. Là pennéo dìi doi, notte una. Li zitielli li iettavano le prete. Lo terzo dìe de commannamento de Iugurta e de Sciarretta della Colonna fu strascinato allo campo dell’Austa. Là se adunaro tutti Iudiei in granne moititudine: non ne remase uno. Là fu fatto uno fuoco de cardi secchi. In quello fuoco delli cardi fu messo. Era grasso. Per la moita grassezza da sé ardeva volentieri. Staievano là li Iudiei forte affaccennati, afforosi, affociti. Attizzavano li cardi perché ardessi. Così quello cuorpo fu arzo e fu redutto in polve: non ne remase cica“. Tempestivamente il Papa ordinò all’Albornoz di concedere l’amnistia a quanti fossero stati convolti nel delitto. Nella foto sotto il titolo possiamo osservare il monumento dedicato a Cola di Rienzo, inaugurato il 20 settembre 1887 nel giardino che fiancheggia la Cordonata, ovvero nel luogo dove, approssimativamente, avvenne il linciaggio: la statua è opera di Gaetano Masini ed è posta sopra una base composta da frammenti scultorei ed epigrafici vari realizzata dall’architetto Francesco Azzurri.