Via del Plebiscito (nella foto sopra) collega Piazza Venezia a Piazza del Gesù ed un tempo era detta “Via Papalis” in quanto costituiva parte della via che i cortei pontifici percorrevano in occasione della “presa di possesso” che il novello papa effettuava, in qualità di Vescovo di Roma, per recarsi dal complesso Vaticano a quello Laterano. Alla fine dell’Ottocento il nome della via fu mutato in ricordo del plebiscito svoltosi il 2 ottobre 1870 per l’annessione di Roma all’Italia: i risultati videro ufficialmente la schiacciante vittoria dei “si”, 40.785, a fronte dei “no” che furono solo 46; il risultato complessivo nella provincia di Roma fu di 77.520 “sì” contro 857 “no”, mentre in tutto il territorio annesso i risultati furono 133.681 “sì” contro 1.507 “no”.
Iniziamo la visita di Via del Plebiscito partendo da Piazza Venezia e considerando il lato destro: la prima parte è dominata dalla facciata di Palazzo Doria Pamphilj (nella foto sopra in primo piano), che la nobile famiglia, nel XVIII secolo, inglobò al palazzo già esistente acquistando altre case. L’edificio, opera di Paolo Ameli del 1743, si presenta a quattro piani sopra il pianterreno, riuniti in tre parti con le laterali a bugne e la centrale liscia; al pianterreno 14 porte di rimessa ad arco ribassato, tutte trasformate in negozi, e due grandi portali sormontati da balconi.
Tra i civici 109 e 110 di Via del Plebiscito è collocata una grande edicola settecentesca (nella foto 1) costituita da una tela ovale dipinta ad olio, circondata da una composizione in stucco con angeli e putti. L’immagine della Madonna è a mezzo busto, con le mani giunte e gli occhi rivolti verso il basso. L’edicola fu commissionata dagli inquilini del palazzo che il 12 luglio 1796 richiesero l’autorizzazione al principe Andrea IV Doria Pamphilj di apporla sulla facciata, assumendosene le spese per la sua realizzazione in stucco. Notare che il periodo corrisponde al miracolo delle Sacre Immagini che mossero gli occhi e piansero per l’invasione francese dello Stato Pontificio: la Madonna del Rosario, la Madonna dell’Arco dei Pantani, la Madonna dell’Archetto, la Madonna della Provvidenza, la Madonna Addolorata e quella posta nella chiesa di S.Niccolò de’ Prefetti. La tela fu acquistata nel mercato antiquario dal sellaro che era pure inquilino della bottega sottostante; anche il principe partecipò poi alle spese pagando le opere murarie. L’edicola fu restaurata nel 1975 dal Comune di Roma, mentre la tela fu restaurata dai Doria nel 1986 e sostituita con una copia.
L’edificio che segue è Palazzo Grazioli (nella foto 2), la struttura originaria del quale risale ad un edificio costruito nel Cinquecento da Giacomo Della Porta per i Gottifredi, una famiglia originaria di Volterra e presente a Roma fin dal XIII secolo. Presente come palazzetto ad altane già nella pianta del Tempesta del 1593, nel 1648 fu rinnovato da Camillo Arcucci, che diede all’edificio l’impronta del barocco romano ed i cui discendenti ne furono proprietari fino a tutto il Settecento. Nel 1806 il palazzo ospitò il conte di Kevenhüller, ambasciatore d’Austria a Roma, quando, a causa del trattato di Presburgo, fu costretto a cedere Palazzo Venezia, sua precedente sede, al cardinale Fesch, zio e ministro di Napoleone I, imperatore dei Francesi e re d’Italia; in quegli stessi anni vi abitò anche la duchessa di Lucca, Maria Luisa di Borbone Parma, priva del suo ducato, che vi morì nel 1824. Poi il palazzo fu acquistato dai Grazioli, attuali proprietari, che provvidero ad un radicale restauro dell’edificio dandone incarico nel 1840 ad Antonio Sarti: i lavori si protrassero a lungo e terminarono soltanto nel 1874. I Grazioli arrivarono a Roma verso la fine del Settecento, provenienti dalla Valtellina, impiegando le loro prime risorse nell’affitto e poi nell’acquisto di molini sul Tevere.
L’ascesa nella scala sociale fu rapida: dapprima fornai, ben presto divennero proprietari terrieri, con l’acquisto, tra l’altro, della Tenuta di Castel Porziano (attualmente proprietà del Presidente della Repubblica), finché nel 1843 entrarono a far parte della nobiltà romana, risultando addirittura terzi nella graduatoria di rendita annua. Nel 1877, nella parte retrostante l’edificio, fu creata una piazza, inizialmente denominata “Piazza della Gatta” (dal simulacro tuttora situato sul cornicione di Palazzo Grazioli su Via della Gatta) ma in seguito sostituita dall’attuale denominazione di Piazza Grazioli: ciò permise la riedificazione della facciata posteriore e sulle vie laterali, la creazione di un cortile completamente nuovo e di un nuovo braccio di scala, che fece ricavare una serie di saloni e gallerie intorno al cortile, e quindi di una sala da ballo, riunendo due sale dell’antico edificio, con una decorazione esaltante i fasti familiari, eseguita da Prospero Piatti. La facciata su Via del Plebiscito (nella foto 2) apre al pianterreno sul bugnato con un imponente portale tra due colonne, sormontato da un balcone balaustrato del primo piano, a timpano centinato con lo stemma dei Grazioli in mosaico, tra otto finestre architravate sopra altrettante inferriate, opera del Sarti, che ne inserì sei a proseguimento delle due esistenti, al posto delle porte ad arco ribassato sormontate da finestrelle. La facciata è scandita da paraste con capitelli ornati da teste leonine, un motivo araldico tratto dallo stemma della famiglia Gottifredi; anche i timpani triangolari che ornano le finestre del secondo piano presentano teste di leone.
All’angolo di Via del Plebiscito con Via della Gatta è situata un’edicola sacra ottocentesca in sostituzione di una più antica con baldacchino. La via prosegue con un restringimento causato, sempre sul lato destro, dalla presenza di Palazzo Altieri, una sorta di “manica” dell’edificio con 15 finestre e due grandi balconi ad angolo con Via degli Astalli: sotto il balcone più basso si trova un’edicola sacra (nella foto 3) raffigurante una “Madonna con Bambino” entro una conchiglia. Di fronte al palazzo, sul lato sinistro di Via del Plebiscito, è situato il complesso laterale della Chiesa del Gesù, mentre il restante tratto fino a Piazza Venezia è caratterizzato dalla presenza imponente della facciata laterale di Palazzo Venezia. Il modello di questa facciata riprende esattamente quello presente su Piazza Venezia e ripropone la sequenza di finestre aperte sui vari livelli scanditi da cornici marcapiano e beccatelli con mensole marmoree sovrastati dai merli guelfi. Il portale d’ingresso separa le due diverse fasi costruttive: le 8 finestre a sinistra, corrispondenti ai Saloni monumentali, ripetono il disegno delle finestre a croce già utilizzato nella facciata principale, ma a sovrastare le aperture in questo caso è esclusivamente lo stemma cardinalizio di Marco Barbo (con la croce del Patriarcato di Aquileia), mentre le eleganti iscrizioni in caratteri antichi citano sia il nome del cardinale che quello del papa defunto.
Le restanti 8 finestre, compresa quella sovrastante il portale, invece, dove si snoda l’Appartamento Cybo, sono più piccole, prive di iscrizioni e la mostra marmorea non presenta il disegno a croce. L’Appartamento Cybo, dal nome di Lorenzo, nipote di Innocenzo VIII, che per primo lo abitò, fu aggiunto all’Appartamento Barbo, di pertinenza pontificia, alla fine del ‘400. Elemento di grande rilevanza è il portale (nella foto 4) eseguito per volere di Marco Barbo intorno al 1470, probabilmente opera dello stesso artista che realizzò quello dell’ingresso sulla facciata principale, ma con forme più rigorose: privo della finestrella sovrastante e delle volute di raccordo è costituito da colonne corinzie scanalate con stilobati recanti lo stemma del cardinale Marco Barbo e che sorreggono un architrave sopra il quale è situato un timpano entro il quale due angeli reggono lo stemma di Papa Paolo II. Oltrepassato il portale si accede all’androne coperto con una grande volta a lunette, in fondo al quale un cortile con portico, opera incompiuta di Giuliano da Maiano, presenta nel mezzo una fontana di Carlo Monaldi risalente al 1730 e raffigurante “Venezia che sposa il Mare” (nella foto 5).
La fontana venne commissionata dall’ambasciatore veneto Barbon Morosini, che così risolse i problemi di approvvigionamento idrico per gli abitanti del palazzo, fino ad allora costretti a ricorrere alla fontana pubblica sulla piazza. Il gruppo scultoreo, posto su una grande conchiglia sorretta da tre tritoni, rappresenta l’allegoria di “Venezia che sposa il Mare” e celebra la Repubblica attraverso la personificazione della Serenissima con ai piedi il Leone di San Marco ed un putto, il cappello dogale in testa ed un anello nella mano destra a simboleggiare il connubio con il mare. Sul perimetro della vasca vi sono altri putti recanti scudi che riportano i nomi delle maggiori conquiste veneziane (Cipro, Morea, Dalmazia, Candia). Dallo stesso androne di accesso inizia, sulla destra, la “Scala Nova” (nella foto 6), uno scalone monumentale costruito da Luigi Marangoni tra il 1924 ed il 1930 in sostituzione della scala eretta da Camillo Pistrucci nel 1911, che a sua volta aveva sostituito l’antica scala in laterizio, la “cordonata” quattrocentesca, di cui restano alcuni frammenti nei sotterranei e che venne costruita durante i lavori di ampliamento risalenti al pontificato di Paolo II.
La “Scala Nova” è realizzata in travertino di Tivoli ed è sostenuta da pilastri compositi arricchiti da capitelli. Inoltre, è costituita da 6 rampe per un totale di 127 scalini e nel vano centrale, alla sommità, si legge l’iscrizione “AEDIBUS VENETIARUM VETUSTAE ITALIAE VICTRICIS MONUMENTUM ANN DOM MCMXXX AET LICT VIII“, ovvero “Nella casa di Venezia il monumento all’antica Italia vittoriosa”, seguita dall’anno 1930 corrispondente alla fine dei lavori. L’intera decorazione rimanda alla Terza Guerra d’Indipendenza del 1866 e alla Prima Guerra Mondiale. La scala conduce ai locali che ospitano il Museo Nazionale del Palazzo di Venezia, la nascita del quale risale al 1916, quando lo Stato Italiano recuperò l’edificio dall’Austria e lo destinò a sede di un grande museo di arte medievale e rinascimentale: primo direttore dell’istituzione fu Federico Hermanin. Nel Museo confluirono gli oggetti provenienti dal disperso Museo Kircheriano, dalla Galleria Nazionale d’Arte Antica e soprattutto le collezioni raccolte a Castel S.Angelo per l’Esposizione Internazionale d’Arte del 1911.
Negli anni successivi, si aggiunsero altre prestigiose raccolte d’arte: le armi del conte Carlo Calori (1917); i dipinti medievali e rinascimentali del lascito di Enrichetta Hertz (dal 1978 passata nella Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini); le porcellane ed i dipinti del principe Fabrizio Ruffo di Motta Bagnara; le medaglie di Paolo II dell’antiquario Scipione Bonfili. Al primo allestimento del 1921 ne seguì un altro nel 1929, che ebbe breve durata, poiché l’ingresso del regime fascista ne causò lo spostamento nell’Appartamento Cybo e nel Palazzetto. Nel 1933 confluì nel museo la collezione più cospicua del proprio patrimonio, quella donata dai coniugi Henriette Tower e George Wurts, costituita da dipinti, pastelli su carta, sculture lignee, ceramiche, arazzi, ventagli, stoffe, mobili, argenti. Nel secondo dopoguerra, sotto la direzione di Antonino Santangelo, il Museo raggiunse l’estensione più ampia in seguito all’arrivo delle importanti collezioni di sculture in bronzo e terracotta Gorga, Pollak e Auriti, oltre a vari doni e lasciti. Nel 1957 il museo venne arricchito dai preziosi frammenti marmorei duecenteschi, dalle stoffe copte, dalle maioliche, dalle statue lignee, dalle serrature e dagli elementi di arredo pervenuti dal disciolto Museo Artistico Industriale.
Nel 1959 lo Stato Italiano acquisì circa 1200 pezzi della collezione di armi bianche e da fuoco del principe Ladislao Odescalchi, che, allestita dieci anni dopo nei Saloni monumentali, venne rimossa negli anni Ottanta per destinare l’Appartamento Barbo a sede di esposizioni temporanee. Dal 1983 le collezioni sono allestite lungo le sale dell’Appartamento Cybo e della Sala Altoviti, con raccolte divise per tipologia: dipinti, sculture lignee e pastelli, cui seguono, nel Corridoio dei Cardinali, le porcellane, bronzetti, mobili, maioliche, terrecotte ed armi. Molti sono i pezzi significativi ed importanti del museo: tra questi citiamo il “Busto di Paolo II” (nella foto 7), opera in marmo a lungo attribuita alla bottega di Paolo Romano ma poi ricondotta a Mino da Fiesole, il “Doppio Ritratto” (nella foto 8) del Giorgione ed il “S.Pietro Piangente” (nella foto 9) del Guercino. Il museo, inoltre, conserva ed espone una piccola sezione di opere medievali con avori, argenti e smalti.
Per finire, vogliamo segnalare, all’angolo di Via del Plebiscito con Piazza Venezia, al di sopra delle finestre centinate, un rilievo con il Leone di S.Marco (nella foto 10), conosciuto anche come Leone alato e Leone marciano. Il Leone di S.Marco rappresenta simbolicamente l’Evangelista S.Marco, patrono della città di Venezia e simbolo dell’antica Serenissima Repubblica di Venezia. La rappresentazione ebbe origine da un’antica leggenda secondo la quale un angelo, con le sembianze di un leone alato, apparve una notte in sogno a S.Marco, naufrago nella laguna di Venezia dopo un viaggio ad Aquileia, ed esclamò la frase in latino: “PAX TIBI MARCE EVANGELISTA MEUS, HIC REQUIESCET CORPUS TUUM”, ovvero “Pace a te Marco mio Evangelista, qui riposerà il corpo tuo”, a significare che in quella terra avrebbe trovato accoglienza, onore e riposo. La prima parte della frase è diventata la citazione più famosa ed utilizzata nelle riproduzioni del Leone di S.Marco con il libro aperto, come si può notare nella foto 10.