Il 12 dicembre 1881 fu nominata, con delibera del Consiglio Comunale, una commissione per lo studio del Piano Regolatore della città di Roma: dopo 5 mesi di studi la commissione presentò, il 19 maggio 1882, dinanzi al Consiglio Comunale, la relazione dal titolo “Piano edilizio Regolatore e di ampliamento della città di Roma in relazione alla legge sul concorso dello Stato nelle opere edilizie“, che sarà approvata il mese seguente. La commissione aveva apportato diverse modifiche rispetto alle proposte formulate dal Piano Regolatore del 1873 (approvato ma mai reso operante in termini di legge), ad esempio predisponendo precise indicazioni rispetto al tracciato della via che da Piazza Venezia conduceva al Tevere ed al Vaticano, ovvero la nuova “Via Nazionale“. Infatti fino al 1886 questa nuova strada, in quanto prosecuzione della Via Nazionale, venne così denominata: soltanto con la delibera del Consiglio Comunale del 25 giugno 1886 la via venne chiamata Corso Vittorio Emanuele II, in onore del primo Re d’Italia. C’è da precisare che il proseguimento della Via Nazionale da Piazza Venezia fino al Tevere era stato già deliberato dal Consiglio Comunale una prima volta nella seduta del 31 maggio 1880 ed una seconda volta nella seduta del 15 maggio 1881, nel corso della quale fu deciso di portare la larghezza della sezione stradale da 16 a 20 metri, ottemperando così alle nuove prescrizioni di legge. Il Piano Regolatore prevedeva che l’arteria, oltrepassata la Piazza Sforza Cesarini, dovesse biforcarsi, piegando da un lato verso il Ponte dei Fiorentini grazie all’allargamento della Via dei Cimatori, dall’altro dirigendosi verso il Ponte S.Angelo, demolendo l’intero fronte della Via del Banco di S.Spirito: né l’uno né l’altro vennero mai fortunatamente effettuati. Soltanto nella seduta del 3 luglio 1885 si decise di proporre, anziché la biforcazione, un prolungamento rettilineo fino al Tevere, che si sarebbe poi oltrepassato con un nuovo ponte (Ponte Vittorio Emanuele II) così da collegare la zona di Borgo e del Vaticano, variante poi approvata il 13 novembre 1886. Il nuovo Piano Regolatore del 1882 non apparve soltanto orientato a risolvere gli aspetti principalmente connessi alla scala urbanistica ma fu maggiormente orientato, rispetto a quello del 1873, ad “isolare” i monumenti più importanti al fine di conferire maggior decoro e nobiltà alla strada, secondo i criteri in voga in quel periodo. Proprio in virtù di quest’idea non si risparmiarono demolizioni, modifiche o spostamenti di straordinarie opere edilizie: la Piccola Farnesina fu isolata, espropriate anche le zone laterali della Via Sora e dei Banchi Vecchi, demolito l’edificio (adibito a servizio) addossato al Palazzo della Cancelleria, arretrati i Palazzi Sora e Sforza Cesarini. Fortunatamente non tutte le “idee innovative” furono realizzate, come l’allargamento del Ponte Elio o il sopra citato allargamento di Via del Banco di S.Spirito. I lavori vennero appaltati in tre distinti tronchi viari: il primo dalla Piazza del Gesù alla Piazza di S.Andrea della Valle con contratto del 10 settembre 1883, il secondo dalla Piazza di S.Andrea della Valle alla Via Larga con contratto del 4 agosto 1884 ed il terzo dalla Via Larga fino alla Via dell’Albergo di Civitavecchia (così chiamato per la presenza di un albergo dove facevano scalo le carrozze provenienti da Civitavecchia e corrispondente all’attuale Lungotevere degli Altoviti) con contratti tra il 1887 ed il 1888.
Corso Vittorio Emanuele II è condiviso da quattro rioni: il tratto compreso tra Piazza del Gesù fino all’incrocio tra Largo di Torre Argentina e Via di Torre Argentina appartiene al rione Pigna; il tratto da qui fino all’incrocio tra Via dei Chiavari e Corso del Rinascimento al rione S.Eustachio; il tratto da qui fino all’incrocio tra Vicolo Cellini e Via dei Filippini al rione Parione; il tratto da qui fino alla Piazza Pasquale Paoli al rione Ponte.
Prendiamo ora in considerazione il tratto appartenente al rione Parione. Palazzo Massimo alle Colonne (nella foto sotto il titolo), situato al civico 141, appartiene sin dalle origini ai principi Massimo e fu ricostruito tra il 1532 ed il 1536 da Baldassarre Peruzzi sui resti dell’edificio quattrocentesco di Pietro Massimi distrutto durante il Sacco di Roma del 1527. La convessa facciata, rivestita di bugne, segue l’andamento della cavea dell’Odeon di Domiziano (nell’immagine 1 la linea tratteggiata ricalca l’andamento curvilineo del palazzo sul fianco dell’Odeon), destinato agli spettacoli musicali ed in stretta connessione con il vicino “Stadio“, sul quale il palazzo fu costruito, ed è formata dal portico, da un pianterreno, da un piano nobile e da altri due piani con finestre rettangolari ed incorniciate. Il cornicione di coronamento è a mensole e rosoni. Molto elegante il piano nobile, con sette finestre architravate sopra altrettanti balconcini, che poggiano sulla cornice aggettante al di sopra della trabeazione. Al pianterreno si ergono maestose le sei colonne doriche, abbinate al centro, che danno il nome al palazzo e formano il portico.
L’atrio presenta un soffitto a cassettoni con stucchi, al centro del quale si trova lo stemma della famiglia (nella foto 2), formato da una fascia obliqua, da una croce caricata di 11 scudetti (nove verticali e due orizzontali) e da due leoncini incoronati: ai lati vi sono scolpiti un elmo dell’antica Roma ed un fanciullo che strozza due serpenti, palese allusione ad Ercole, secondo una leggenda ritenuto padre di Fabio Massimo, dal quale il casato si vanta di discendere.
Nelle nicchie vi sono due statue su cippi (una delle quali nella foto 3), copie di originali classici. L’androne, con volta a botte e finissimi stucchi nei riquadri, attribuiti al Peruzzi, immette nel primo cortile porticato sui due lati brevi con due colonne doriche ciascuno; nel lato opposto vi è una loggia con soffitto ligneo intagliato e policromo e con colonne e pilastri con capitelli ionici. Sul lato destro vi è un piccolo ninfeo, costruito da Battista Rossi e Giovan Battista Solari con reperti antichi ed una fontanina sulla quale è posta una copia romana della “Venere Abadiomene” (ossia “emergente”, sottintendendo dal mare): ai lati due porte con bassorilievi. Vi è anche un secondo cortile decorato con bassorilievi e medaglioni, sempre opera di Rossi e Solari. Splendide le sale affrescate da Daniele da Volterra e Perin del Vaga, con episodi della “Vita di Fabio Massimo” e dell’Eneide. Nel cosiddetto “Salone Rosso” vi è il fregio della “Fondazione di Roma“, opera di Giulio Romano. Al secondo piano è situata la cappella che fu la stanza dove S.Filippo Neri resuscitò, il 16 marzo 1583, il piccolo Paolo Massimo: l’evento è ricordato ogni anno con funzioni religiose, mentre le colonne del portico vengono addobbate con damaschi rossi.
Al civico 151 si trova l’antico ingresso della Casa Massimo (nella foto 4), risultato della trasformazione di due case acquistate dai Principi Massimo nel Cinquecento e che si presenta come un corpo di fabbrica a tre piani e copertura a tetto. La pulita ed elegante facciata apre al pianoterra con porte di negozio del gioielliere Ansuini ed un portoncino più piccolo: lo delimitano dei cantonali bugnati. Sulla facciata vi sono due stemmi in terracotta del Principe Camillo Carlo Alberto e della moglie Francesca Lucchesi Palli, che qui abitarono nell’Ottocento.
Al civico 145 si trova Palazzo Massimo di Pirro (nella foto 5), costruito per Angelo Massimo da Giovanni Mangone di Caravaggio, allievo di Antonio da Sangallo, ai primi del Cinquecento, nello stesso periodo in cui veniva eretta la residenza dei Massimo alle Colonne.
Fu chiamato di Pirro, il famoso Re dell’Epiro, in quanto per molto tempo ospitò una statua di Marte erroneamente identificata con Pirro per la presenza di elefanti nella decorazione delle frange dell’abito. La statua (nella foto 6), rinvenuta nel XVI secolo presso il Foro Transitorio e datata tra il I ed il II secolo d.C., fu acquistata nel 1738 da Clemente XII e trasportata in Campidoglio nel 1740, dove tuttora si trova, ospitata nei Musei Capitolini. L’edificio nell’Ottocento fu collegato al confinante Palazzo Massimo alle Colonne da Camillo Alberto Massimo durante i lavori di restauro e di sopraelevazione avvenuti nel 1874. La facciata oggi si presenta divisa in tre ordini di finestre, con un ammezzato tra il primo ed il secondo piano. Al centro apre un grande portale architravato, mentre agli estremi vi sono altri due piccoli portali, anch’essi architravati. Il cortile è diviso in tre ordini lungo tre lati e in due sulla parete di fronte; sul lato dell’ingresso vi sono due pilastri con lesene doriche che sorreggono tre arcate con fregio a metope decorate. Al primo piano, una loggia murata a colonne ioniche con tre finestre architravate. Dal lato sinistro del cortile si accede ad una chiostrina con portico a colonne ioniche.
Al civico 154 di Corso Vittorio Emanuele II è situato Palazzo Pichi Manfroni Lovatti (nella foto 7), copia dell’originale edificio di Geronimo Pichi demolito nel 1881 per la realizzazione di Corso Vittorio Emanuele II. L’antico palazzo era stato costruito alla fine del Quattrocento secondo un progetto di Leon Battista Alberti tra la Via Papale, Via del Paradiso e Vicolo dei Bovari; in occasione dei lavori di ricostruzione, l’edificio fu arretrato di ben 16 metri e sopraelevato, fu realizzata una nuova facciata dall’ingegnere Ciriaco Salvatori, mentre furono salvate le facciate su Via dei Bovari e Via del Paradiso, con le finestre che recano ancora sull’architrave la scritta “HIERONYMUS PICUS“.
Fu risparmiato anche il portale del Cinquecento con lo stemma dei Pichi, situato ora ai piedi dello scalone (nella foto 8). Numerosi i proprietari che si succedettero ai Pichi: i Manfroni nel Seicento, ancora proprietari nel 1748, come si legge sulla pianta del Nolli, i marchesi Paleotti, i Lovatti, la Banca Romana, che fece eseguire la ricostruzione del palazzo, i Maggiorani ed i Cecchini.
Al civico 168 di Corso Vittorio Emanuele II si trova il Palazzetto della Farnesina ai Baullari (nella foto 9), che deve la sua denominazione impropria alla presenza dei gigli di Francia che compaiono nel primo marcapiano: furono scambiati con quelli dei Farnese, donde il termine popolare di “Farnesina”. I gigli di Francia si riferiscono invece allo stemma araldico del prelato bretone Thomas Le Roy (che aveva latinizzato il cognome in Regis), il quale, come premio alla mediazione diplomatica messa in atto tra Leone X e Francesco I, ebbe la concessione di usare nel suo stemma, accanto agli ermellini di Bretagna, i gigli della casa Angiò. Fu lo stesso Le Roy ad incaricare Antonio da Sangallo il Giovane della costruzione del palazzetto, opera poi proseguita dall’erede, il nipote Raul. Il palazzetto subì notevoli danni durante il Sacco di Roma del 1527, ma fu restaurato. Alla morte di Raoul Le Roy, nel 1546, subentrò nella proprietà il figlio Francesco, che lo lasciò al fratello Pietro, dal quale fu venduto a Sigismondo Martignoni; ma nel 1578 ne era proprietario Camillo Bucimazza e lo ereditò il fratello Alessandro, monaco benedettino, che lo lasciò al monastero di S.Paolo fuori le mura. Vi furono allora una serie di cause tra gli eredi dei Le Roy ed i Benedettini di S.Paolo, che si conclusero con il ritorno della proprietà ai Le Roy. Costoro vendettero il complesso nel 1671 ai Silvestri, che lo abitarono fino agli inizi dell’Ottocento; in seguito l’edificio passò al Conte Linotte, agli Iorio, ai Turrio ed ai Baldassarri. Poi si ebbe l’apertura di Corso Vittorio Emanuele II ed allora il palazzo fu destinato inizialmente alla demolizione, ma poi fu acquistato dal Comune di Roma e così l’edificio, in parte, fu salvo. Furono demolite soltanto le costruzioni addossate alla facciata che doveva apparire sulla nuova via, mentre le altre furono lasciate intatte: quella sul Vicolo dell’Aquila, allora la principale, che costeggia l’edificio su due lati, presenta una base a fascia bugnata interrotta da una porta, due ordini di finestre ad arco e finestrelle incorniciate a bugne, con il pianterreno diviso dal primo piano da una fascia adorna dei motivi araldici. Il prospetto su Via dei Baullari è caratterizzato da un loggiato centrale e da una serie verticale di finestre binate che evidenziano la presenza della scala. Il nuovo prospetto su Corso Vittorio Emanuele II fu costruito da Enrico Guj nel 1904, creando una facciata in stile con le altre ed utilizzando gli stessi elementi. Importante fu, nel corso della ristrutturazione, il ritrovamento dei resti di una domus romana del III-IV secolo d.C. articolati intorno ad un cortile colonnato. All’interno della domus fu trovato anche un ciclo di affreschi tardo antichi con scene di caccia e di pesca, successivamente staccati e sistemati in una sala al piano terra. Inoltre si ritiene che il cortile sia stato adattato sull’area di una grande area scoperta (forse una piazza) e che originariamente fosse appartenuta ad una delle quattro stabula factionum, le scuderie delle quattro squadre degli aurighi (veneta, pràsina, russata, albata) che si esibivano nel vicino Stadio. Dopo i restauri il palazzo ospitò alcuni Uffici del Campidoglio e la redazione della storica rivista “Capitolium“. Nel 1948 vi fu trasferito il Museo Barracco, la cui sede era stata demolita nel 1938 per una modifica del Piano Regolatore del 1931. La collezione comprende opere d’arte egizia, assira, fenicia, cipriota, etrusca, greca e romana, fino a qualche esemplare di arte medievale, raccolte dal Barone Giovanni Barracco e donate al Comune di Roma nel 1902. Sono annessi al museo la Biblioteca Barracco e la biblioteca di Ludovico Pollak, archeologo e primo direttore del museo nella sua sede originaria.
Palazzo Sora (nella foto 10), situato al civico 217, risale al Quattrocento e fu costruito per Urbano Fieschi, Conte di Lavagna, probabilmente dal Bramante, previa demolizione di alcune case con torre appartenenti ai fratelli Niccolò ed Antonio Savelli. L’edificio fu poi ampliato ai primi del Cinquecento dal fratello di Urbano, il Cardinale Nicola Fieschi, ma nel 1547 fu acquistato dai Savelli. Nel 1579 l’edificio fu venduto a Gregorio XIII che lo destinò al figlio Giacomo Boncompagni, Duca di Sora, che venne ad abitarvi dal 1585. Da allora il palazzo fu chiamato Sora e divenne per quasi due secoli un centro di vita intellettuale e mondana: dal salotto del Duca Giacomo, frequentato da poeti ed artisti, in onore del quale il notaro Cristoforo Castelletti compose una commedia, Le stravaganze d’amore (la prima in cui compare un personaggio che parla in dialetto romanesco), all’Accademia dei Quiriti fondata qui nel 1711 da Gian Vincenzo Gravina. Nell’Ottocento fu la decadenza: lo incamerò lo Stato Pontificio e nel 1830 venne adibito a caserma. Nel 1845 minacciava di crollare ed allora fu eseguito un restauro radicale, durante il quale furono anche rinvenuti due pavimenti in mosaico trasferiti al Museo Lateranense. Tutto sommato fu un restauro inutile perché con l’apertura del Corso Vittorio Emanuele II si ebbe un taglio di un terzo dell’edificio, che fu ricostruito, più arretrato, con una nuova facciata. Si salvarono il portale e parte del cortile, nonché la facciata su Via Sora. Divenuto proprietà del Comune di Roma nel 1892, ospitò il Liceo Terenzio Mamiani, cedendo poi il posto all’Istituto Tecnico Commerciale Vincenzo Gioberti, tuttora qui situato. L’edificio si presenta con finestre arcuate ed architravate al pianterreno, con il portone decorato con nastri e trofei; al primo piano alcune lesene scandiscono le finestre timpanate, alternativamente triangolari ed arcuate. La sopraelevazione è costituita da altri due piani, uno con finestre incorniciate e l’altro con finestrelle.
Nella sezione Roma nell’Arte vedi:
Palazzo Massimi alle Colonne di G.Vasi