Via Vittorio Veneto venne tracciata, come tutto il rione Ludovisi, alla fine del XIX secolo in seguito alla lottizzazione dell’antica e magnifica Villa Ludovisi per collegare via del Tritone a Villa Borghese. Inizialmente la via venne dedicata, come le altre vie del rione, ad una regione italiana e denominata via Veneto: soltanto nel 1919, con apposita Delibera Municipale, cambiò in via Vittorio Veneto per commemorare la battaglia, vinta dagli italiani nel 1918 contro gli austriaci nel comune di Vittorio Veneto, che pose fine alla Prima Guerra Mondiale. La via, che inizia da piazza Barberini per terminare, dopo due ampie curve, a Porta Pinciana, è celeberrima in tutto il mondo come centro mondano di Roma, come simbolo della “dolce vita”, grazie alla presenza di eleganti alberghi (come l’Hotel Excelsior, nella foto in alto) e caffè all’aperto frequentati, negli anni ’60, da stelle del cinema e da indiscreti paparazzi.
Iniziando la visita da piazza Barberini troviamo, sulla destra, al civico 7, un edificio dal nome alquanto bizzarro: Palazzo Parlante (nella foto 1). Il soprannome deriva dalla sovrabbondanza di iscrizioni che caratterizzano la sua facciata: sulla fascia marcapiano tra il secondo ed il terzo piano si trova la scritta “ROMANIS QUINTO AB RENOVATIS FASCIBUS ANNO URBIS AD ORNATUM EST AEDIFICATA DOMUS”, ovvero “La casa fu edificata come ornamento della città nel quinto anno di Roma dell’era fascista (che corrisponde al periodo che va dal 28 ottobre 1926 al 27 ottobre 1927)”; sulle architravi delle quattro finestre timpanate del primo piano “ROMA LENIA QUIA AETERNA”, ovvero “Roma (è) lenta perché eterna”; sul prospetto d’angolo verso piazza Barberini, sull’alto rilievo con due putti, la targa che ricorda l’architetto e la data di costruzione del palazzo, “GINO COPPEDÈ ARCHITETTO ANNO MCMXXVII” (1927) e varie altre iscrizioni. Numerosi sono anche gli elementi decorativi con mascheroni inseriti nei timpani delle finestre e mostruose protomi. Il palazzo fu costruito su terreni originariamente appartenenti ai padri Cappuccini della limitrofa chiesa di S.Maria della Concezione.
Un mascherone è situato sull’ampio portone d’ingresso (nella foto 2), tra due mensole a sostegno del balcone sul quale apre un grande finestrone sormontato da timpano spezzato con l’effigie di un’aquila. Sulla sinistra della facciata, due grandi serliane decorate da medaglioni. Oggi è sede di vari uffici, tra i quali la cosiddetta Casa Argentina, che si occupa della promozione e della diffusione in Italia dei diversi aspetti della cultura e della realtà argentina e dispone, inoltre, di una biblioteca comprendente oltre 4000 volumi.
Accanto a questo palazzo, come già menzionata, sorge la chiesa di S.Maria della Concezione (nella foto 3), comunemente chiamata “dei Cappuccini”, edificata nel 1624 da Antonio Casoni per volontà del cardinale Antonio Barberini, fratello di Urbano VIII e cappuccino egli stesso. La costruzione della chiesa, posta sul terreno di proprietà della nobile famiglia romana dei Barberini, fu portata a termine nel giro di pochi anni e già nel 1631 i frati Cappuccini si insediarono nell’annesso convento, poi demolito alla fine dell’Ottocento in occasione dell’apertura della via. Una doppia rampa di scale, costruita nel 1890 per allineare l’ingresso della chiesa al nuovo livello della strada, precede la facciata a due ordini di lesene, arricchita ai primi del XX secolo del parziale rivestimento in travertino; al centro dell’ordine inferiore si apre il portale coronato dall’emblema dei Francescani, due braccia attorno alla Croce.
L’interno (nella foto 4) è a navata unica, con cinque cappelle per lato intercomunicanti tra loro: sull’altare maggiore è situata l’Immacolata Concezione, realizzata nel 1814 da Gioacchino Bombelli, che riprodusse la tela originaria di Giovanni Lanfranco del 1628, andata distrutta nel 1813 a seguito di un incendio durante l’occupazione francese di Roma.
Numerose le opere d’arte ivi conservate, come la famosa tela del “Cristo Deriso” (nella foto 5) di Gherardo delle Notti (Gerrit van Honthorst), opera della prima metà del XVII secolo. Il dipinto, di evidente stile caravaggesco, ritrae Gesù poggiato ad una colonna, con i piedi incrociati come fossero già pronti per la Croce, mentre viene deriso dai soldati, qui rappresentati come cortigiani secenteschi: magnifico il volto di Gesù, parzialmente illuminato da una torcia.
Segue un altro capolavoro: il “S.Michele Arcangelo” (nella foto 6), che Guido Reni dipinse nel 1635 su commissione del cardinale Antonio Barberini. Il quadro, oltre che per la sua straordinaria bellezza, è famoso anche perché legato ad un aneddoto piuttosto curioso. Si narra che Guido Reni fosse venuto a conoscenza che il cardinale Giovanni Battista Pamphilj, futuro papa Innocenzo X, lo avesse offeso o diffamato e che quindi avesse deciso di vendicarsi inserendo le sembianze del cardinale all’interno dell’opera: lo ritenne perfetto per il volto di Satana! Naturalmente, quando il quadro venne esposto nella chiesa, il cardinale protestò vivamente per un tale oltraggio ma il Reni si giustificò dicendo che fu soltanto un caso se il volto di Satana somigliasse a quello del cardinale. Altrettanto meravigliose le opere di Domenico Zampieri detto il Domenichino, “S.Francesco riceve le stimmate” e la “Morte di S.Francesco”, e quella del pittore fiorentino Mario Balassi, la “Trasfigurazione“.
La chiesa custodisce anche una tomba piuttosto singolare per la sua importanza e, contemporaneamente, per la sua semplicità: si tratta del sepolcro del cardinale Antonio Barberini, nonché fratello di Urbano VIII, la cui pietra tombale (nella foto 7), anonimamente, presenta soltanto un’iscrizione che così recita: “HIC JACET PULVIS, CINIS ET NIHIL“, ossia “Qui giace polvere, cenere e nient’altro”.
Probabilmente la chiesa è nota soprattutto per il cimitero: quattro stanzoni sotterranei decorati con ossa di innumerevoli frati (circa 4000), qui trasportate dai frati stessi con 300 viaggi di carrette, tra il 1627 ed il 1631, dal precedente cimitero posto nel convento della chiesa di S.Niccolò de Portiis. Le composizioni realizzate con varie ossa del corpo, tibie, femori, rotule, peroni, metacarpi, falangi e così via, formano rosoni, lesene, stelle, fiori, festoni e persino lampadari (nella foto 8). Situate sotto le cinque cappelle di destra della chiesa, le cripte dei cappuccini si affacciano, completamente aperte, su uno stretto corridoio lungo circa quaranta metri. “QUELLO CHE VOI SIETE NOI ERAVAMO – QUELLO CHE NOI SIAMO VOI SARETE”: questo è il benvenuto che ci danno le ossa in persona in un cartello posto all’ingresso. Le ossa furono “chimicamente trattate”, mentre la mummificazione dei corpi, stando a Domenico da Isnello, fu ottenuta grazie al potere disseccante della rena usata per il pavimento. Igino da Alatri aggiunge che la terra che ricopre il sacro suolo fu portata direttamente da Gerusalemme per volere di Urbano VIII. Nel convento era famoso, nel secolo scorso, un certo fra Pacifico, assai ricercato dal popolo romano per la sua non comune facoltà di dare i numeri del Lotto, sempre vincenti. La leggenda narra che Gregorio XVI, stanco delle resse che si creavano dinanzi al convento, ma assai più perché quelle vincite impoverivano le casse pontificie, fece allontanare il frate da Roma, ma questi, giunto a piazza del Popolo, esclamò: “Roma, se santa sei, perché crudel se’ tanta? Se dici che se’ santa, certo bugiarda sei“. I romani giocarono la cinquina (66-70-16-60-6) e sbancarono il Lotto pontificio.
Sull’area originariamente occupata dagli orti dei frati Cappuccini, al civico 33 di Via Vittorio Veneto sorge il palazzo del Ministero dello Sviluppo Economico (nella foto 9), inizialmente denominato Palazzo delle Corporazioni e realizzato dagli architetti Marcello Piacentini e Giuseppe Vaccaro tra il 1930 ed il 1932. Il palazzo fu uno dei primi edifici pubblici ad essere dotato dei più moderni impianti per l’epoca: ascensori, riscaldamento centralizzato, ventilazione, posta pneumatica, servizi igienici e telefoni. L’ingresso principale è costituito dal grande portale con ante bronzee, su disegno di Giovanni Prini, con otto formelle che raffigurano “le attività dei lavoratori italiani” (Arti liberali, Arti plastiche e liriche, Commercio, Banca, Trasporti in mare, Trasporti aerei e terresti, Agricoltura, Industria), e presenta stipiti in travertino ed architrave in porfido. Al di sopra è posto il balcone, con un fregio continuo in marmo rosso, opera di Antonio Maraini raffigurante le “Sette Corporazioni” (Credito, Industria, Professioni, Arti, Agricoltura, Trasporti, Commercio), dietro il quale sorge la grande vetrata del salone d’onore.
Sul versante opposto della via troviamo, al civico 24, il palazzo dell’Hotel Imperiale (nella foto 10), costruito alla fine dell’Ottocento. Sviluppa su quattro piani, oltre all’attico ed al piano rialzato, e la sua facciata è caratterizzata da una serie di trifore per piano.
Poco più avanti, al civico 50, si apre il palazzo dell’Hotel Majestic (nella foto 11), costruito nel 1896 da Gaetano Koch in uno stile neo-rinascimentale, tipico del grande architetto romano, ed è caratterizzato dall’andamento curvilineo della facciata che segue il corso della strada. Di grande effetto i tre balconcini semicircolari sovrapposti sull’angolo dell’avancorpo dell’edificio. Il palazzo è stato restaurato nel 1946, dopo la sua occupazione da parte delle forze armate canadesi. All’interno splendidi affreschi del 1900 di Domenico Bruschi, sulla volta del salone principale ed al primo piano, con le allegorie della glorificazione di Roma e di Casa Savoia.
Al civico 56 di Via Vittorio Veneto è situato Palazzo Balestra (nella foto 12), oggi sede del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Il palazzo fu costruito da Gaetano Koch nel 1891 per la famiglia Balestra e sviluppa tre piani oltre l’ammezzato e la sopraelevazione. Un imponente portale ad arco bugnato reca sulla chiave lo stemma della famiglia Balestra, un leone rampante che impugna una balestra, ed è sormontato da un architrave, posto sotto il balcone, contenente altri emblemi, alternati tra loro, dello stemma Balestra, ovvero tre stelle, il leone rampante e tre monti. Sulla fascia marcapiano tra il primo ed il secondo piano vi è la scritta relativa alla costruzione del palazzo: “JAC(OPO) BALESTRA IUXTA VIAM QUAM PRIMUM CUM AEDILITATEM GERERET STERNENDAM EXCOGITAVIT A FUNDAMENTIS EREXIT A(NNO) MDCCCXCI”. A coronamento, un cornicione a mensole e lacunari con rose.
A seguire, al civico 62, troviamo il palazzo dell’Ambasciatori Palace Hotel (nella foto 13), costruito tra il 1900 ed il 1902 su progetto di Carlo Busiri Vici come sede del Palace Hotel. Sviluppa su quattro piani, con nove finestre ognuno, oltre ad un attico. Presenta un corpo centrale sporgente caratterizzato da tre balconi per piano sovrapposti ed architravati tra colonne ioniche e ringhiere in ferro battuto. Vi aprono porte-finestre ad arco a tutto sesto. Al quarto piano le finestre sono incorniciate da piccoli pilastri; sui lati quattro nicchie tonde con medaglioni contenenti busti di imperatori. Al pianterreno l’ingresso è tra quattro colonne e finestroni ad arco sul bugnato. Nel 1946 il Palace Hotel divenne sede della Biblioteca dell’Ambasciata Americana ma poi nel 1993 i proprietari riaprirono la struttura come Ambasciatori Palace.
A fronte di tanta mondanità, al civico 119 sorge l’austero Palazzo Margherita (nella foto 14), oggi sede dell’Ambasciata degli Stati Uniti d’America e così chiamato in onore della regina Margherita di Savoia che vi andò ad abitare dopo l’uccisione a Monza del marito, Re Umberto I, avvenuta il 29 luglio 1900. L’edificio fu costruito tra il 1886 ed il 1890 su progetto dell’architetto Gaetano Koch per il principe di Piombino, Rodolfo Boncompagni Ludovisi, incorporando il retrostante “Palazzo Grande” della proprietà Orsini, ceduta nel 1622 al cardinale Ludovico Ludovisi: il palazzo, insieme al Casino dell’Aurora, rimane l’ultima testimonianza della stupenda, ma purtroppo scomparsa, Villa Ludovisi. Palazzo Margherita, arretrato rispetto alla strada, apre con una maestosa facciata preceduta da un superbo portale a tre archi fiancheggiato da colonne sormontate da un balcone. Al pianterreno si aprono 12 finestre architravate, con davanzali a mensola ed inferriate, e sottostanti finestrelle; al primo piano 15 finestre con timpano curvo e decorazioni, al secondo con timpano triangolare. Sotto l’elegante cornicione a mensole corre un fregio composto da tre bande diagonali e dai draghi, simboli araldici dei Boncompagni. Il primo piano era di rappresentanza e comprendeva la sala di ricevimento ed i saloni; il secondo piano era usato come abitazione. I due piani sono collegati da uno scalone a due rampe che occupa quasi un terzo dell’antico “Palazzo Grande”. Al civico 121 è situata la Palazzina Piombino, fatta costruire, insieme all’altra palazzina gemella che si affaccia su Via Boncompagni 2, dai figli di Rodolfo Boncompagni, Luigi e Giuseppe, all’interno di una villetta ricavata alle spalle di Palazzo Margherita. Le due palazzine erano collegate tra loro da una piccola ferrovia usata per riunire la famiglia al palazzo durante le ore dei pasti: oggi anche questi edifici fanno parte dell’Ambasciata degli Stati Uniti d’America.
Al civico 125 di Via Vittorio Veneto è situato il Palazzo dell’Hotel Excelsior (nella foto in alto sotto il titolo, oggi The Westin Excelsior), costruito tra il 1905 ed il 1908 da Otto Maraini su richiesta di una società italo-svizzera. Sviluppa quattro piani, un attico ed un superattico successivamente costruiti. La facciata presenta 14 finestre per piano, su balconi ai primi tre, incorniciate da lesene al primo, da semicolonne al secondo, timpanate al terzo ed aperte ad arco al quarto. All’attico, due logge coperte con colonne ioniche abbinate, sulle quali poggia il superattico. È sicuramente uno dei grandi alberghi a carattere internazionale di Roma, nel quale hanno sempre risieduto celebri attori e grandi personalità. La torre d’angolo è l’elemento di spicco della facciata, con il cupolino di ispirazione parigina, decorato da ricche volute sul tamburo, che sorreggono i costoloni della cupola, fra cui sono poste finestre circolari. L’ingresso carrabile (nella foto 15) è delimitato da tre ampie arcate, sulle quali è situata una balconata sorretta da quattro grandi cariatidi di travertino che rappresentano l’Africa, l’Asia, l’Europa e l’America. Durante la Prima Guerra Mondiale due piani dell’albergo furono occupati dalla Croce Rossa come ospedale per ufficiali, mentre durante l’occupazione nazista di Roma il generale Kurt Mälzer, comandante militare della città, stabilì qui il suo quartier generale. Ad angolo con via Sicilia è situato il celebre Caffè Doney, che aprì la sua attività nel 1943, divenendo immediatamente un punto di riferimento dell’internazionale via Vittorio Veneto e poi della “dolce vita” romana.
Infine, in prossimità di Porta Pinciana, al civico 191 di Via Vittorio Veneto, troviamo il Marriott Grand Hotel Flora (nella foto 16). La struttura originaria di questo albergo risale al 1895 circa, quando era una dignitosa locanda che occupava solo una parte dell’attuale edificio, proprietà di una famiglia di albergatori, i Signorini, secondo un progetto al quale aveva partecipato Andrea Busiri Vici. Nel 1925 la locanda divenne un albergo su una nuovissima struttura edilizia: un palazzo dall’imponente facciata di tre piani, oltre ad un attico con loggia a colonne ioniche, chiuso in alto da una balaustra con stemmi sulla quale vi era la scritta GRANDE ALBERGO FLORA. Caratteristici, ai lati dell’edificio, i quattro stemmi delle città di Torino, Roma, Firenze e Verona. A parte il periodo dell’occupazione tedesca di Roma, tra il 1943 ed il 1944, quando l’albergo fu sede dell’Alto comando della Wehrmacht, sino agli anni Cinquanta il Flora ebbe il suo periodo di maggior prestigio: era l’albergo degli intellettuali, degli ambasciatori, dei parlamentari europei, vantando clienti come Richard Nixon, Paul Getty senior e Christian Barnard.
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